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Attestazione del requisito idoneità finanziaria

ai sensi art 7 Reg. Europeo n. 1071/2009 – art. 7 D. D . 291/2011

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Ricorsi Tributari

giovedì 23 aprile 2015

Dirigenti_illegittimi._Accertamenti_nulli



la Corte Costituzionale ha affermato che sono illegittimi i ripetuti conferimenti di incarichi dirigenziali ai funzionari senza, invece, indire i regolari concorsi come previsto dalla Costituzione e dalle varie leggi ordinarie.
Sono, dunque, nulli i provvedimenti firmati dai circa 1.200 dirigenti interessati (il 75% del totale), tra Agenzia delle Entrate (767), del Territorio e delle Dogane.
Le proroghe sono state disposte nel corso di vari anni, sotto i governi Monti, Letta e Renzi per assicurare la funzionalità delle strutture.
Forse è arrivato il momento che si ripristini una guida politica chiara per supervisionare l’apparato delle entrate ed assumersi le responsabilità politiche, reintroducendo il Ministero delle Finanze, senza affidare tutto come oggi all’Agenzia delle Entrate.

mercoledì 22 aprile 2015

Omesso versamento IVA fra sanzioni tributarie e penali

Omesso versamento IVA fra sanzioni tributarie e penali: quadro aggiornato della giurisprudenza


Martedì, 28 Gennaio 2014
I reati di omesso versamento dell’Iva non si pongono in rapporti di specialità rispetto alle analoghe violazioni tributarie, con la conseguenza che, verificandosi il superamento della soglia di punibilità (50.000 euro), possono applicarsi entrambe le sanzioni, questo è quanto affermato dai supremi giudici della Corte di Cassazione, Sezioni unite penali, nella sentenza n. 37424 del 2013.
Però, prima di analizzare il reato sotto l’aspetto penale (che può portare a condanna con la reclusione da sei mesi a due anni) e le relative sentenze in merito, è opportuno trattare la questione tributaria per evincerne la sanzione.

QUESTIONE TRIBUTARIA
Ai sensi dell’art.13, c. 1,del D.Lgs n. 471 del 1997 “chi non esegue, in tutto o in parte, alle prescritte scadenze, i versamenti in acconto, i versamenti periodici, il versamento di conguaglio o a saldo dell’imposta risultante dalla dichiarazione, detratto in questi casi l’ammontare dei versamenti periodici e in acconto, ancorchè non effettuati, è soggetto a sanzione amministrativa pari al 30% di ogni importo non versato, anche quando, in seguito alla correzione degli errori materiali e di calcolo rilevati in sede di controllo della dichiarazione annuale, risulti una maggiore imposta o una minore eccedenza detraibile”. La sanzione del 30% è dunque prevista a carico di chi non esegue i versamenti d’imposta risultanti dalla dichiarazione. Accade però che taluni uffici applichino detta imposta anche quando non si discute di omesso versamento di imposte dichiarate, ma di omessa dichiarazione, omessa fatturazione ed omessa registrazione di operazioni imponibili: ipotesi cioè che attengono alla fase di accertamento, non a quella della riscossione del tributo. La sanzione per omesso versamento viene pertanto irrogata nei confronti di contribuenti che, avendo omesso di dichiarare fatture o registrare determinate operazioni, non abbiano emesso nessuna imposta a riguardo: si pensi ,ad esempio, all’imprenditore che non registri né fatturi operazioni imponibili, o al sostituto che non effettui né dichiari ritenute d’ acconto.
In questi casi deve recisamente escludersi l’applicazione dell’art.13 del D.lgs n.471 del 1997. La norma è collocata nel titolo II del decreto, che regola le sanzioni in materia di riscossione e ciò conferma, al di là del suo inequivoco tenore letterale, che essa non è applicabile quando venga in discussione il presupposto dell’obbligazione tributaria, che riguarda, appunto, l’accertamento e non la riscossione del tributo.

All’accertamento di una omessa fatturazione o di una omessa ritenuta d’acconto non può seguire l’irrogazione per omesso versamento, che presuppone invece l’ esistenza di un’imposta dichiarata: dichiaro 100 e non verso, o verso in ritardo, o soltanto in parte. Mentre, se dichiaro e verso 100, il versamento che dichiaro risulta congruo, salvo verificare l’ eventuale infedeltà della dichiarazione. Questi principi trovano conferma in giurisprudenza o nella stessa prassi amministrativa.
In una fattispecie di omesso versamento dell’Iva, la Corte di Cassazione, sentenza del 17 gennaio 2002 n.450 (in Rivista Giuridica Tributaria del 2002 n.949) ha affermato infatti che la riscossione dell’imposta presuppone necessariamente la (auto) liquidazione dell’Iva da parte del soggetto passivo; in altri termini, il versamento dell’Iva imposto dalla legge riguarda l’imposta già determinata e liquidata al soggetto passivo.

Quindi, la giurisprudenza, di merito ha dichiarato che l’omesso versamento va riferito alle ipotesi di imposte dichiarate e non versate e non anche all’ ipotesi di imposte non dichiarate, e quindi formalmente da non versare.
Le norme che disciplinano l’applicazione delle sanzioni possono essere cosi riassunte:
- le sanzioni hanno carattere personale e quindi non si trasmettono agli eredi. Un’eccezione a questa regola è prevista dall’ art. 7 del decreto legge n.269 del 2003, che ha introdotto il principio della riferibilità, per cui se l’ autore della violazione ha agito nell’interesse di una società o ente con personalità giuridica, è quest’ultimo soggetto che deve assumere a suo carico il pagamento di una sanzione;
- la somma irrogata a titolo di sanzione non produce interessi;
- nessuno può essere soggetto a sanzione se non in forza di una legge entrata in vigore prima della violazione(principio della irretroattività);
-i n base al principio del favor rei le leggi intervenute dopo il fatto si applicano se più favorevoli al contribuente, a condizione che il provvedimento di irrogazione non sia divenuto definitivo;
- non può essere assoggettato a sanzione chi, al momento in cui ha commesso il fatto, non aveva la capacità di intendere e volere in base ai criteri indicati dal codice penale( principio di imputabilità) né coscienza e volontà della propria condotta(dolo o colpa);
- le sanzioni non si applicano: nei casi di obiettiva incertezza sulla portata delle disposizioni; quando la violazione deriva dalla equivocità dei modelli o dalle richieste di informazioni dell’ amministrazione finanziaria; quando le violazioni derivano da ignoranza della legge tributaria non evitabile;
- non è punibile il fatto commesso per causa di forza maggiore;
- in caso di concorso di più violazioni o di violazioni continuate, anche in tempi diversi, si applica la sanzione più grave, aumentata da un quarto al doppio;
- le sanzioni sono ridotte anche in caso di ravvedimento spontaneo, di accettazione della sanzione o di rinuncia a impugnazioni e ricorsi;
- le sanzioni devono sempre essere adeguate al danno subito dall’erario e all’entità soggettiva e oggettiva delle violazioni.
ASPETTO PENALE
Nell’attuale contesto di crisi, molte imprese si trovano nell’impossibilità di adempiere al pagamento delle imposte e nel nostro caso dell’Iva.
Infatti, si sta mitigando sulle possibili conseguenze negative dei reati di omesso versamento di quest’ultima, nelle ipotesi in cui questo non dipenda dalla volontà del contribuente, ma dalla crisi economica.

Il reato di omesso versamento Iva (Art. 10 ter D.Lgs. n. 74/2000)
Nel testo originario del decreto Legislativo numero 74 del 2000 non erano previste fattispecie delittuose riguardanti l’ omesso versamento di imposte. Uno dei principi cardine del nuovo diritto penale tributario, infatti, era quello di punire penalmente solo i comportamenti aventi un particolare grado di antigiuridicità e insidiosità in campo fiscale, lasciando nel campo delle sanzioni amministrative le violazioni tributarie di minore entità.
Nel corso del 2004 e del 2006 il legislatore, tuttavia, ha introdotto i reati di omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis) e dell’imposta sul valore aggiunto (art. 10-ter), pur prevedendo una soglia di non punibilità di 50 mila Euro per periodo d’ imposta. I reati citati rappresentano delle forme particolari di appropriazione indebita ai danni dello Stato e costituiscono delitti. L’integrazione del reato richiede, pertanto, la sussistenza dell’elemento soggettivo costituito dal dolo.
Comunque, per meglio comprendere la situazione, qui di seguito, in ordine cronologico, menzionerò le principali sentenze della Corte di Cassazione, che hanno fatto stato, più qualche pronuncia anche del Gip presso il tribunale di Firenze, sino alla più recente sentenza della Commissione Tributaria provinciale del 10 dicembre 2013.

Commette reato il contribuente che non versa l’ Iva dichiarata (più di 50 mila euro)entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’ imposta successivo (vale a dire 27 dicembre). E’ quanto ricordato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 503 dell’ 8 gennaio 2012. La terza sezione penale ha confermato la condanna inflitta ad un imprenditore di Milano che, pur avendo dichiarato l’Iva, non l’aveva versata entro il termine per il versamento dell’ acconto relativo al periodo di imposta successivo.
Il processo penale, a differenza di quello tributario, impone di valutare e provare la volontarietà dell’omissione, nel senso richiesto della norma violata, di tal che deve risultare che l’ agente si è rappresentato e ha voluto l’ omissione del versamento nel termine richiesto: ne consegue che deve escludersi detta volontarietà nell’ ipotesi in cui la crisi finanziaria in cui si è venuto a trovare il contribuente, anche a causa delle condotte di soggetti terzi inadempienti nei suoi confronti, lo ha posto in condizione di illiquidità che non lo rende perseguibile penalmente, pur se inadempiente al pagamento dell’Iva. E inoltre manca l’elemento psicologico del reato. E’ quanto si evince dalla sentenza del 10 agosto 2012 del Gip del tribunale di Firenze.

In caso di omesso versamento dell’Iva la confisca per equivalente dei beni che un azienda affitta è sempre possibile se l’ operazione è solo simulata. In questo caso il titolare mantiene, in realtà, la piena disponibilità dei beni. A sancirlo è la terza sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n.43508 del 9 novembre 2012.
Il reato di omesso versamento Iva non sussiste se la società è in liquidazione prima della scadenza del pagamento, lo ha stabilito il Gip di Milano che con la sentenza n. 2818/2012 ha assolto dal reato l'imprenditore in quanto non sussisteva l’ elemento psicologico e dove la sua azienda versava in una situazione di crisi economica.
-Ancora, in un'altra sentenza del 8 ottobre 2012 n.39449 della Cassazione si evince come l’omesso versamento Iva è reato se si protrae al 27 dicembre dell’anno successivo al periodo d’imposta; intervenendo sulla novella introdotta dall’art. 35, c. 7, del dl 203/06.
La novella sanziona chiunque non versa l’Iva dovuta in base alla dichiarazione annuale entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’ imposta successivo: la condotta antidoverosa risulta assimilata sotto il profilo sanzionatorio a quella del sostituto d’ imposta che non versa le ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituti. E’ peraltro l’articolo 6, comma 2, della legge 405/90 che fissa alla data del 27 dicembre il termine previsto per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’ imposta successivo.

Il reato di omesso versamento Iva si consuma anche senza notifica dell’accertamento fiscale; è infatti sufficiente che il contribuente abbia lasciato spirare il termine ultimo per saldare il debito con l’erario e cioè quello per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo. E’ quanto ha affermato la Corte di Cassazione, che con la sentenza dell’ 8 luglio 2013, ha confermato un sequestro finalizzato alla confisca a carico di un evasore ancor prima che il contribuente avesse ricevuto l’ atto impositivo. La difesa aveva contestato che l’ imprenditore non aveva mai ricevuto avviso di accertamento da parte dell’ufficio Iva di Salerno. In proposito, i supremi giudici hanno espressamente chiarito che, ai fini del perfezionamento del modello legale del reato di cui all’art.10-ter d.lgs. 74/00, non è affatto richiesta la notifica dell’avviso di accertamento dell’infrazione, in quanto il reato di omesso versamento dell’Iva si consuma nel momento in cui scade il termine previsto dalla legge per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo.

Le difficoltà finanziarie dell’azienda non esonerano dalla responsabilità penale l’ imprenditore che non versa l’Iva; questo lo sancisce la Corte di cassazione con la sentenza n.29751 dell’11 luglio 2013. E’ il caso di un imprenditore che aveva proposto ricorso in Cassazione, dopo la sentenza della Corte d’appello di Torino che aveva confermato la decisione del giudice di primo grado. Colpevole del reato di omesso versamento Iva, veniva condannato a scontare la pena dei due mesi e venti giorni di reclusione, oltre alle pene accessorie. A sua difesa, l’ imputato dichiara che le difficoltà finanziarie lo avevano costretto a saldare fornitori e dipendenti, nel tentativo di evitare il fallimento, sperando, successivamente, di rimediare al versamento dell’imposta. Nessuno sconto da parte dei giudici, l’ imposta andava versata. Il ricorso pertanto è inammissibile.

Con la sentenza n.37424 del 2013 le Sezioni Unite dellaCassazione, partendo dal presupposto che l’Iva viene riscossa una volta emessa la fattura e sussiste quindi l’obbligo di accantonamento da parte del contribuente per eseguire il successivo versamento, hanno ritenuto integrato il reato anche in presenza di crisi di liquidità. Sul punto la medesima sentenza però sembra offrire un minimo di apertura ove i contribuente dimostri, circostanza non particolarmente semplice, oltre alla crisi di liquidità in cui verte l'azienda, anche che l’omesso versamento non sia dipeso da una scelta dell’imprenditore.
In molte ipotesi di omesso versamento Iva, una volta ricevuto l’avviso bonario dall’agenzia delle Entrate, o la cartella di pagamento da Equitalia, il contribuente provvede a pagare quanto dovuto, anche se a rate (e quindi a reato già consumato, successivamente cioè al 27 dicembre). Va tenuto presente che il pagamento eseguito dopo tale data non fa venir meno la violazione penale ma riduce di un terzo la pena. E’ necessario, a tal fine, secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, che l’estinzione integrale del debito avvenga prima del dibattimento. In concreto, quindi, per beneficiare dell’attenuante il contribuente dovrà estinguere le rate prima di tale udienza. Sotto il profilo procedurale, può tornare utile ricordare che la maggior parte dei reati di omesso versamento si concludono con il decreto di condanna, ossia un procedimento speciale che prevede l’ instaurazione di un giudizio sulla sola base degli atti delle indagini preliminari presenti nel fascicolo del pubblico ministero, in assenza dunque sia dell’udienza preliminare sia del dibattimento. Il Pm può cosi chiedere al Gip di emettere un decreto penale contenente la contestazione del reato e l’applicazione della pena solo pecuniaria. Sia in ipotesi di decreto penale sia di condanna a seguito di altro procedimento (patteggiamento incluso), è prevista la confisca per equivalente se il contribuente, debitore dell’erario, non abbia estinto il suo debito Iva con il Fisco.
Ove, invece, abbia pagato (per intero) l’ imposta anche se, di norma, successivamente alla scadenza penalmente rilevante, pur risultando comunque integrato il reato, la confisca equivalente non si può più eseguire. Si tratterrebbe di un’ingiustificata doppia sanzione, sancito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 45189 del 2013.
La Corte di Cassazione sezione penale con la sentenza n. 22980 del 28 maggio del 2013 ha affermato che è illegittimo il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente, del patrimonio della società che ha tratto vantaggio dai reati tributari posti in essere dal legale rappresentante, salvo che non si dimostri che la persona giuridica è un mero apparato fittizio, utilizzato per la commissione degli illeciti fiscali. 
La Corte di Cassazione sezione penale con la sentenza n. 42350 del 15 ottobre 2013 intervenendo in materia di reati fiscali e provvedimenti di sequestro preventivi ha ribadito che non è ammesso il provvedimento  di sequestro per equivalente dei beni della società per i reati fiscali commessi dall’amministratore. Neppure se si considera la misura cautelare stessa come istituto non sanzionatorio per applicarla anche a chi non ha commesso il reato.

La vicenda ha visto protagonista il rappresentante legale di una cooperativa cui veniva contestato il reato di cui all’articolo 10-ter d.lgs. 74/2000 per non aver pagato l’IVA per oltre i 50.000,00 euro della stessa cooperativa. Pertanto il Gip disponeva, su richiesta del PM, il sequestro preventivo nei confronti dell’imputato mentre non accoglieva la richiesta di sequestro preventivo nei confronti della cooperativa, avendo il Gip ritenuto che il d.lgs. 231/2000 prevede la responsabilità dell’ente per i reati commessi a suo vantaggio solo nelle fattispecie di cui agli articoli 24 e seguenti dello stesso decreto legislativo, non includenti i reati fiscali. Il Tribunale, cui aveva presentato appello il PM, ha confermato tale decisione del Gip, richiamando giurisprudenza di legittimità in senso conforme. Avverso tale decisione il PM ricorre alla Corte Suprema.
Gli Ermellini, con la sentenza in commento, respingono il ricorso del Procuratore della Repubblica consolidando l’orientamento della Cassazione, allargandolo però alla presa in considerazione di nuovi elementi portati dalla pubblica accusa. Superata una iniziale incerta giurisprudenziale della Cassazione, poiché in alcune pronunce aveva ammesso la possibilità di procedere alla misura cautelare anche a carico della società, facendo leva sul rapporto organico tra l’indagato di reati fiscali e la persona giuridica che dalla commissione (presunta) dell’illecito ha tratto vantaggio, nelle sentenze più recenti è andato via via consolidandosi un orientamento diverso che non ha più considerato sufficiente il rapporto organico. A essere valorizzata è stata, invece, l’assenza dei reati tributari nell’elenco di quelli che possono dare luogo alla misura cautelare, sulla base del decreto 231 del 2001, sulla responsabilità amministrativa delle società per i delitti compiuti da propri dipendenti.
Il Pubblico Ministero, consapevole dell’orientamento ormai consolidato e costante della Corte Suprema, ha spostato il ragionamento sulla natura della confisca per equivalente negandone la natura di sanzione e valorizzando, invece, quella di misura di sicurezza. In questo senso, sosteneva tra l’altro l’accusa, se la confisca fosse una pena, il pagamento del debito tributario sarebbe equivalente a causa di estinzione della pena mentre rimane solo una circostanza attenuante. Quindi, venuta meno la natura sanzionatoria, la misura cautelare potrebbe essere applicata anche a chi non ha commesso il reato, ma ha comunque tratto vantaggio.
I giudici di legittimità hanno ritenuto che queste argomentazione non devono portare a una modifica delle ultime conclusioni. La tesi sostenuta dal Pm, nel caso di specie, ignora il fatto che “il vero centro è l’identificazione della misura e della modalità con cui un soggetto, che non è persona fisica, e che pertanto non può essere reo di alcun reato incede nel sistema penale per subire le conseguenze di un reato, commesso in suo favore”. I giudici del Palazzaccio evidenziano che la persona giuridica allora è una finzione giuridica, nel senso di un istituto giuridico con cui si è rivestita un’attività umana. Una finzione che funziona senza troppi intoppi nel settore del diritto civile e del diritto amministrativo, ma che ha bisogno di un adeguamento specifico quando, come nel diritto penale, la responsabilità della condotta illecita è personale.
Con l’introduzione del D.Lgs. n. 231/2001 il legislatore ha adeguato il diritto con l’ingresso, in via eccezionale, dell’ente collettivo nel sistema della responsabilità individuale, solo formalmente amministrativa, ma nei fatti con aspetti ampiamente penali. Si tratta di un’eccezione però che trova la sua declinazione operativa nell’individuazione di una lista di reati presupposto. Dalla quale, però, i reati tributari sono assolutamente esclusi.
Per cui alla luce di quanto sopra la Cassazione non accoglie la richiesta del PM al rinvio della decisione alle Sezioni unite in quanto il diritto vivente non può, in alcun caso, sostituirsi al legislatore. Nel caso esaminato, seguire una linea diversa e estendere l’identificazione della persona giuridica con quella fisica, cui è collegata da rapporto organico, vorrebbe dire scardinare l’istituto stesso della persona giuridica, regredendo ad un ordinamento che non riconosce più l’istituto stesso.

L’ex amministratore non risponde dell’omesso versamento dell’Iva se non è chiara la situazione dell’azienda nel momento in cui lui entra in carica. Si tratta, infatti, di un reato istantaneo riferibile al destinatario dell’ obbligo, e cioè al manager in carica. Ad ogni modo, l’accusa dovrà ricostruire i movimenti di cassa nelle varie fasi di vita della società. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 39082 del 23 settembre 2013, contrariamente al parere della Procura Generale, ha annullato con rinvio la condanna inflitta ad un amministratore di una Srl poi fallita.

E’ retroattivo (applicabile anche all’anno d’ imposta 2004) il reato di mancato versamento delle ritenute che superano i 50 mila euro; dunque, il sostituto d’imposta risponde della sanzione penale e amministrativa che sono cumulabili, è quanto sancito dalle Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione, che con la sentenza n. 37425 del 12 settembre 2013, hanno dato una interpretazione restrittiva all’articolo 10-bis del d.lgs. 74 del 2000, rendendo definitiva la condanna a carico dell’imprenditore.
Il reato di omesso versamento dell’Iva sussiste anche nel caso in cui la società abbia già ottenuto il concordato preventivo, sancito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n.44283 del 31 ottobre 2013; l’ imprenditore può salvarsi dalla condanna penale optando per la transazione fiscale.
La confisca sui beni dell’evasore fiscale è una misura obbligatoria anche in caso di patteggiamento e deve essere pari all’ ammontare dell’ imposta non pagata. E non è necessario il sequestro preventivo. A questa interessante conclusione è giunta la Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 4445 del 4 novembre 2013, ha accolto il ricorso della procura di Ancona; insomma, il giudice del patteggiamento ha veramente poco spazio d’ azione. La misura ablativa deve essere sempre disposta a garanzia del debito fiscale e per l’ intero ammontare dell’Iva evasa.

Il sequestro finalizzato alla confisca sui beni dell’evasore fiscale deve essere revocato se il contribuente ha saldato il suo debito con l’amministrazione finanziaria. Pur essendo una misura sanzionatoria, non può sussistere alcun automatismo nell’applicazione. Lo sottolinea la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 45188 del’ 8 novembre 2013.
A fine anno 2013, arriva una buona notizia per gli imprenditori che non riescono a riscuotere dall’amministrazione pubblica e dai privati. Infatti, non devono al fisco la sanzione Iva perché il ritardo nel pagamento da parte dei clienti è considerato una causa di forza maggior che esclude la responsabilità del contribuente.
Lo ha stabilito la Ctp di Campobasso con la sentenza n.179 del 10 dicembre 2013.
Il contribuente ha dimostrato di aver fatto tutto il possibile per riscuotere dall’ente locale e dagli altri debitori, ma senza successo. Tanto è sufficiente, per la CTP, ad annullare l’atto impositivo nel frattempo spiccato dall’ufficio Iva sul fronte interessi e sanzioni. La prova che l’omesso o ritardato pagamento del tributo sia stato provocato dai ripetuti ritardi dei pagamenti di rilevanti somme dovute al contribuente dai soggetti per cui ha effettuato prestazioni lavorative (tra cui la stesa pubblica amministrazione), congiuntamente alla prova di essersi concretamente attivato per recuperare le sue spettanze, esime dalla responsabilità per le sanzioni contestate.

Ultima in ordine di tempo è la sentenza della Corte di Cassazione n. 966 del 13 gennaio 2014 che dichiara che è soggetto a confisca per l’ equivalente della somma Iva non versata l’ imprenditore anche se ha patteggiato la pena, e si tratta di una misura obbligatoria che il giudice è tenuto a disporre.

DUBBI DI COSTITUZIONALITA’ SULL’OMESSO VERSAMENTO IVA
Secondo il Tribunale di Bologna nell’ordinanza n. 80000/2013, in relazione ai fatti reati ante 17/09/2011, non è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10-ter del Dlgs .n. 74 del 2000, limitatamente ai fatti commessi sino al 17/09/2011, nella parte in cui punisce l’omesso versamento Iva per importi regolarmente dichiarati e dovuti al Fisco per importi superiori a 50.000 euro. Questo per violazione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione, in rapporto all’art. 5 D.lgs. 74 del 2000 (omessa dichiarazione fiscale). Ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art.10-ter del Dlgs. 74 del 2000 (come introdotto dal DL. 4 luglio 2006, n.223, convertito con modificazioni dalla legge 4 agosto 2006, n. 248) occorrono due presupposti:
  1. che l’ omesso versamento abbia ad oggetto un’imposta sul valore aggiunto di importo complessivamente superiore ad 50.000 per ciascun periodo di imposta;
  2. che l’ omissione abbia ad oggetto l’ imposta sul valore aggiunto che risulta dovuta in base alla dichiarazione annuale regolarmente presentata.
Osservano i giudici che la mancata presentazione della dichiarazione annuale Iva ed il conseguente mancato versamento dell’imposta dovuta erano e restano se commessi anteriormente al 17 settembre 2011 penalmente rilevanti, stante il mancato raggiungimento della soglia di punibilità prevista dall’art. 5 D.lgs. 74 del 2000 (cioè € 77.468,53); invece, la regolare presentazione della dichiarazione annuale non seguita (al più tardi del 27 dicembre dell’anno successivo) dal versamento dell’Iva dichiarata è ora penalmente perseguibile, ai sensi dell’art. 10-ter del Dlgs 74 del 2000,anche per i fatti commessi fino al 17 settembre 2011 al solo raggiungimento della soglia di punibilità indicata dalla norma (pari a 50.000 euro).
E tale disparità di trattamento, secondo il Tribunale, si pone in evidente contrasto con il principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione.

La risoluzione della questione di legittimità costituzionale della norma indicata è dunque, all’evidenza determinante solo sulla penale responsabilità dell’imputato, non consentendo altrimenti la definizione del giudizio.
Quindi, concludono i giudici, si impone la rimessione della questione alla Corte Costituzionale, con conseguente sospensione del processo ed immediata trasmissione degli atti alla stessa Corte Costituzionale.

UNO SPIRAGLIO POSITIVO SEMBRA EMERGERE DALLA PENULTIMA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE PENALE
La sentenza n. 2614 della Cassazione, terza sezione penale depositata il 21 gennaio del 2014, offre un interessante spunto su come potersi esimere dal reato di omesso versamento Iva, dimostrando concretamente che il mancato pagamento sia dipeso realmente dall’impossibilità incolpevole di effettuarlo in un contesto soprattutto dove forte è la crisi economica in cui versa il contribuente. Nel ricorso la difesa riproponeva la mancanza dell’elemento soggettivo del reato, ed in più il fine di evadere le imposte, trattandosi di una società che svolgeva attività ben definita, ma purtroppo in un momento di crisi economica.
La Corte, pur respingendo il ricorso, però, ha effettuato un’attenta disamina della pronuncia delle Sezioni Unite penali sul punto (sentenza n. 37424/2013), giungendo a conclusioni che appaiono interessanti. Le Sezioni Unite, pur nella loro rigorosa interpretazione, sembravano offrire una minima apertura al contribuente che dimostri, oltre alla citata crisi di liquidità, anche che l’ omesso versamento non fosse dipeso dalla scelta dell’imprenditore. I giudici di legittimità, in base alla pronuncia delle Sezioni unite, hanno ritenuto che la deduzione riguardante la crisi economica fosse stata generica ed il fatto non recava indicazioni specifiche né atte a ravvisare una reale impossibilità incolpevole dell’adempimento tributario penale contestato.
Ove tali elementi fossero stati puntualmente provati, il contribuente non avrebbe risposto dell’illecito penale contestato. Probabilmente, occorreva dimostrare che il contribuente non fosse venuto meno, in tutto o in parte, al dovere di accantonamento dell’imposta precedentemente incassata richiesto dalle Sezioni unite.
Si dovrebbe, quindi, provare che l’ incasso dell’ Iva non è automatico rispetto all’emissione del documento fiscale e quindi che l’ omesso versamento Iva sia conseguenza di tali mancati incassi.

IL REATO NON SUSSISTE SE INCORRE IN ERRORE IL COMMERCIALISTA
Altra ventata di salvezza per il contribuente, che è stato incolpato per reato di omesso versamento Iva, il quale dimostra con testimonianza o prova documentale che c’è stato un errore da parte del proprio commercialista nell’ assolvere con diligenza al suo incarico.
Questo è il caso di un contribuente che fa ricorso in Cassazione ed i giudici di legittimità lo accolgono, con la sentenza n. 2882, depositata il 22 gennaio 2014.
Il contribuente si difende evidenziando che il superamento della soglia dei 50.000 euro era dipeso da un errore del suo commercialista, il quale non aveva utilizzato un credito Iva che gli avrebbe permesso di far scendere il versamento omesso sotto tale cifra, facendo così escludere la responsabilità penale. In più, oltre all’errore testimoniato dallo stesso professionista, si scopre anche la notifica di una cartella di pagamento, dalla quale si evince che era stata erroneamente generata una delega in compensazione delle imposte dirette nonostante la società avesse richiesto specificatamente la compensazione dell’Iva.
Da qui l’esclusione dell’elemento psicologico e quindi l’esclusione della coscienza e della volontà di omettere il versamento dell’imposta per un importo superiore a 50.000 euro.


Maurizio Villani
Grazia Albanese

martedì 21 aprile 2015

Spesometro e sanzioni per omessa presentazione


Sempre possibile il ravvedimento entro un anno dalla scadenza


Passate le scadenze del 10 e 20 aprile 2015 di presentazione dello spesometro, per i contribuenti che rispettivamente effettuano o non effettuano la liquidazione con periodicità mensile dell’IVA, è possibile porre rimedio ad eventuali errori.
Qualora il contribuente non abbia nemmeno presentato la comunicazione originaria, è comunque possibile provvedervi tardivamente e versare le sanzioni con le riduzioni avvalendosi del ravvedimento operoso.
L’art. 21 co. 1 del D.L. 78/2010, infatti, prevede che venga applicata una sanzione amministrativa da 258 a 2.065 euro, ai sensi dell’art. 11 del D.Lgs. 471/97:
- per l’omessa comunicazione;
- o per la sua presentazione con dati incompleti o non veritieri.
In relazione al ravvedimento operoso, è possibile regolarizzare la violazione entro un anno dall’originaria scadenza, beneficiando di una riduzione della sanzione a un ottavo del minimo (32 euro), in quanto applicabile la disposizione di cui all’art. 13, comma 1, lettera b), ultimo periodo del D.Lgs. 472/97.
La sanzione ridotta deve essere versata indicando nel modello F24 il codice tributo “8911”.
Inoltre, in caso di avvenuta contestazione della violazione e irrogazione della sanzione, è ammessa la definizione agevolata con riduzione della sanzione stessa a un terzo, ai sensi dell’art. 16 del D.Lgs. 472/97.

Non è, invece, applicabile la disposizione di cui all’art. 13, comma 1, lettera c) che consente la riduzione della sanzione a un decimo del minimo se la dichiarazione è presentata, con un ritardo non superiore a novanta giorni, non trattandosi di una dichiarazione, ma di una comunicazione.

Non è più possibile inviare l’integrativa entro 30 giorni senza versare sanzioni - Va detto, infine, che molto ha fatto discutere la mancata riproposizione anche per il 2013 e 2014, del ravvedimento speciale, che potremmo definire “transitorio”, che era stato previsto dall’Amministrazione finanziaria esclusivamente per l’invio dei dati del 2012.

Si conferma, come detto nel precedente articolo del 21 aprile 2014, che non è più contemplata dal provvedimento n. 94908 del 2.08.2013 (quindi non è applicabile allo “spesometro” relativo ai dati 2014) la possibilità di trasmettere, senza l’applicazione di sanzioni, una comunicazione sostitutiva entro 30 giorni dalla scadenza del termine, previsto per la trasmissione dei dati.
Tale regolarizzazione, prevista al § 4.4 del provvedimento n. 184182/2010, attuativo della comunicazione dei dati rilevanti del 2012, non è più applicabile per le operazioni relative ad annualità successive al 2012, compreso, in quanto è stata stralciata la riga relativa nel Provvedimento successivo.
Non è cosa così semplice da evincere, se non da un’attenta lettura dei provvedimenti e da un’interpretazione che solo la dottrina ha fornito, nel silenzio ormai consueto del legislatore.
Una buona notizia è sicuramente quella che la Legge delega fiscale, in corso di approvazione, prevede l’abrogazione dell’adempimento, oltreché di quello relativo alla Comunicazione periodica black list, in favore dell’introduzione della e-fattura.
I contribuenti che aderiranno a un regime opzionale della durata di 5 anni, potranno evitare gli adempimenti, qualora inviino tutte le fatture in modalità elettronica direttamente all’Agenzia delle Entrate
.

La selezione della scelta nel modello
- Il contribuente deve indicare se si tratta di comunicazione Ordinaria, Sostitutiva o di Annullamento; nei casi di comunicazione sostitutiva o di annullamento, va indicato il protocollo telematico da annullare o sostituire, oltre al progressivo:
- Invio ordinario: è l’invio delle comunicazioni relative all’area e al periodo di riferimento, da effettuare entro la scadenza fissata dal Provvedimento (10/20 aprile 2015 per lo spesometro ordinario). L’eventuale tardività nella trasmissione potrà essere verificata nella ricevuta telematica;
- Invio sostitutivo: è la comunicazione con la quale si opera la completa sostituzione di un documento (individuato dal “Numero di Protocollo” e dal “Protocollo documento” assegnati all’atto dell’acquisizione e desumibili dalla ricevuta telematica) contenuto nel file precedentemente trasmesso e correttamente acquisito dal sistema;
- Annullamento: è la trasmissione con la quale il soggetto obbligato richiede l’annullamento di documento contenuto in un file ordinario o sostitutivo precedentemente trasmesso.

lunedì 13 aprile 2015

Procedure cautelari ed esecutive


Fermo, ipoteca e pignoramento

Dopo 60 giorni dalla notifica della cartella, se il cittadino non ha provveduto al pagamento, non ha ottenuto una rateizzazione o non è intervenuto un provvedimento di sospensione o annullamento del debito, Equitalia è tenuta ad attivare alcune procedure a garanzia del credito degli Enti impositori.
Equitalia invia al contribuente, prima dell’attivazione delle procedure cautelari, comunicazioni e avvisi, per informarlo delle azioni che per legge è tenuta a compiere al fine di recuperare quanto dovuto.
Per i debiti fino a mille euro non si procede alle azioni cautelari ed esecutive prima di 120 giorni dall’invio, mediante posta ordinaria, di una comunicazione contenente il dettaglio del debito.

Procedure Cautelari

Le procedure cautelati sono attivate per legge, alla scadenza della notifica delle cartelle, a garanzia delle somme iscritte a ruolo dagli Enti impositori.

Fermo Amministrativo

Il Fermo Amministrativo è l’atto con cui si dispone, il blocco dei veicoli intestati al debitore.
In un primo momento il contribuente riceve la comunicazione di preavviso di fermo amministrativo. Con questo atto l’interessato è invitato a mettersi in regola nei successivi 30 giorni e informato che, in caso di mancato pagamento, si procederà all’iscrizione del fermo amministrativo sul veicolo corrispondente alla targa indicata.
Il fermo non viene iscritto se il debitore dimostra, entro i 30 giorni, che il bene mobile è strumentale all'attività svolta dall’impresa o per la professione esercitata dal proprietario del veicolo (decreto legge n.69/2013 cd. "decreto del fare "convertito con modificazioni dalla legge n. 98/2013).
Trascorsi 30 giorni dalla notifica del preavviso di fermo amministrativo, senza che il contribuente abbia dato seguito al pagamento oppure alla rateizzazione di quanto richiesto o in mancanza di provvedimenti quali sgravio o sospensione, si procede con l’iscrizione del fermo amministrativo al Pubblico Registro Automobilistico (PRA).
La cancellazione del fermo può essere effettuata al saldo del debito o, in caso di rateazione, contestualmente al pagamento della prima rata, consegnando al PRA la liberatoria rilasciata da Equitalia.
Nel caso in cui il contribuente e proprietario del veicolo, non proceda al pagamento di quanto richiesto il mezzo potrà essere pignorato e venduto all’asta (vedi procedure esecutive).

Ipoteca Immobiliare

L’Ipoteca Immobiliare è l’atto che Equitalia iscrive presso la Conservatoria a garanzia del credito degli Enti impositori.
L'ipoteca sugli immobili può essere iscritta, sempre previa comunicazione scritta e per debiti complessivamente non inferiori a 20 mila euro.
Il contribuente riceve una comunicazione di preavviso di iscrizione d’ipoteca con la quale lo si invita a pagare le somme dovute entro 30 giorni. Trascorso il termine senza che il contribuente abbia dato seguito alla rateizzazione o al pagamento di quanto richiesto o in mancanza di provvedimenti quali sgravio o sospensione, si procede con l’iscrizione dell’ipoteca.
La cancellazione dell’ipoteca avviene, senza aggravio di ulteriori spese per il contribuente, contestualmente al saldo del debito quindi in caso di rateazione con il pagamento dell’ultima rata.
Dopo l’iscrizione di ipoteca, se il debito rimane insoluto o non rateizzato oppure non è oggetto di provvedimento di sgravio o sospensione, se il bene rientra nelle condizioni (vedi procedure esecutive) previste dalla legge, Equitalia potrà procedere al pignoramento e alla vendita dell’immobile (vedi procedure esecutive).

Procedure Esecutive

Le procedure esecutive per legge sono attivate, dopo gli atti previsti dalle procedure cautelari, per il recupero delle somme iscritte a ruolo dagli Enti impositori. Le procedure prevedono il pignoramento di somme e il pignoramento e la vendita dei beni mobili e immobili.
Prima dell’avvio effettivo delle procedure di espropriazione forzata, si procede con la notifica degli avvisi di intimazione, inviati per cartelle consegnate almeno un anno prima e per le quali non sono state attivate altre procedure. L’avviso di intimazione concede al contribuente 5 giorni di tempo per pagare o rateizzare oppure, peri casi previsti, chiedere la sospensione della riscossione. L’avviso perde efficacia trascorsi 180 giorni dalla data di notifica ma può essere rinnovato.

Pignoramento ed espropriazione (vendita all’asta) di beni mobili e immobili

Si dà corso alle procedure esecutive per la vendita all’asta dei beni, in caso di debiti per i quali persiste il mancato pagamento e soltanto in presenza delle condizioni stabilite dalla legge. In particolare il pignoramento immobiliare non può essere effettuato se l’immobile ha tutte le seguenti caratteristiche:
  • è destinato ad uso abitativo e il debitore vi risiede anagraficamente;
  • è l’unico immobile di proprietà del debitore;
  • non è di lusso, (cioè con le caratteristiche previste dal decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 agosto 1969, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 218 del 27 agosto 1969, ovvero è una villa (A/8), un castello o un palazzo di eminente pregio artistico o storico (A/9).
Negli altri casi si può procedere al pignoramento dell’immobile e all’esecuzione del procedimento (vendita all’asta) solo se:
  • l'importo del debito iscritto a ruolo è superiore a 120.000 euro;
  • sono passati almeno sei mesi dall’iscrizione di ipoteca e il debitore non ha pagato.
La legge prevede che il contribuente d’intesa con Equitalia, possa vendere personalmente l’immobile pignorato o ipotecato entro i 5 giorni che precedono il primo incanto oppure, nel caso un cui non si realizzi la vendita, entro il giorno precedente al secondo incanto.
In questo caso l’intero ricavato sarà versato direttamente ad Equitalia che utilizzerà l’importo per il saldo del debito e restituirà al contribuente l’eventuale somma eccedente entro i 10 giorni lavorativi successivi all’incasso.

Avviso di vendita di Equitalia

atto dell’agente della riscossione (Adr) notificato e trascritto nelle forme di legge con cui si dà corso al pignoramento immobiliare. L’avviso contiene: a) le generalità del soggetto nei confronti del quale si procede; b) la descrizione degli immobili con le indicazioni catastali e la precisazione dei confini; c) l'indicazione della destinazione urbanistica del terreno; d) il giorno, l'ora e il luogo del primo, del secondo e del terzo incanto, con intervallo minimo di venti giorni; e) l'importo complessivo del credito per cui si procede, con il dettaglio dell’imposta, p interessi di mora e spese di esecuzione già maturate; f) il prezzo base dell'incanto; g) la misura minima dell'aumento da apportare alle offerte; h) l'avvertenza che le spese di vendita e gli oneri tributari concernenti il trasferimento sono a carico dell'aggiudicatario; i) l'ammontare della cauzione ed il termine entro il quale deve essere prestata dagli offerenti; l) il termine di versamento del prezzo; m) l'ingiunzione ad astenersi da qualunque atto diretto a sottrarre alla garanzia del credito i beni assoggettati all'espropriazione e i frutti di essi. L’avviso di vendita viene notificato al soggetto nei confronti del quale si procede entro 5 giorni dalla trascrizione In mancanza della notificazione non può procedere alla vendita.

Pignoramento verso terzi

Il Pignoramento verso terzi prevede per Equitalia la possibilità di recuperare le somme dovute dal contribuente-debitore attraverso i crediti da lui vantati da un terzo.
Con questa procedura si richiede al terzo di versare quanto da lui dovuto al contribuente-debitore, direttamente ad Equitalia (es. si chiede di pagare direttamente ad Equitalia l’affitto dell’appartamento se il proprietario è un contribuente-debitore oppure al datore di lavoro di versare parte dello stipendio del lavoratore). In questo caso il terzo deve procedere con il pagamento entro 60 giorni oppure rendere una dichiarazione in cui certifica l’inesistenza / insussistenza del debito.
Pignoramento su stipendi e pensioni Interventi graduali sono previsti in caso di pignoramento di stipendio o pensione o di importi derivanti da rapporto di lavoro:, a tutela delle persone con meno disponibilità economica
  • fino a 2.500 euro la quota pignorabile è un decimo;
  • tra 2.500 e 5.000 euro la quota pignorabile è un settimo;
  • sopra i 5.000 euro , la quota pignorabile è un quinto.

Pignoramento conti correnti

Il pignoramento può essere effettuato anche sulle somme depositate sul conto corrente, ad esclusione dell’ultimo stipendio o pensione che resta sempre disponibile per qualsiasi necessità del debitore.

Dichiarazione stragiudiziale

È la dichiarazione resa da un soggetto terzo, che risulta debitore del contribuente iscritto a ruolo, rilasciata all'agente della riscossione (Adr), ai fini della riscossione. Secondo la legge, trascorsi i 60 giorni dalla notifica della cartella/avviso, Equitalia, prima di procedere al pignoramento di crediti presso terzi (nelle forme ordinarie o speciali) ed anche contemporaneamente all'adozione delle azioni esecutive e cautelari previste dalla legge, può chiedere a soggetti terzi, debitori del soggetto che è iscritto a ruolo, di indicare per iscritto, possibilmente in modo dettagliato, le cose e le somme da loro dovute al debitore principale

Risarcimento del danno da ipoteca esattoriale illegittima


Articolo 20.08.2013 (Giorgio Seminara)
La nullità delle ipoteche iscritte dagli agenti della riscossione per i debiti inferiori agli ottomila euro, è una norma che guarda al passato. Le decisioni delle Sezioni Unite della Cassazione (sentenze nn. 4077/2010 e 5771/2012), hanno infatti riaperto i giochi a favore di tutti quei contribuenti che negli anni scorsi hanno subito e dovuto far fronte a iscrizioni ipotecarie oggi bollate come illegittime.

Preso atto in via definitiva che la procedura esecutiva utilizzata dal concessionario della riscossione non era conforme al dettato normativo di cui all'articolo 76 del D.P.R. n. 602/1973, molti contribuenti hanno dunque agito per richiedere il pagamento delle spese ingiustamente sostenute a fronte di tali iscrizioni ipotecarie nonché degli eventuali danni, anche morali, dagli stessi subiti.

Che il tema sia di stretta attualità e che la partita in gioco sia di una certa consistenza lo si evince anche dal comportamento recentemente assunto dagli stessi vertici della società capogruppo dei concessionari della riscossione, che hanno deciso di cancellare in autotutela le iscrizioni ipotecarie per debiti iscritti a ruolo di importo inferiore a otto mila euro.

Invero, sulla vicenda delle iscrizioni ipotecarie per debiti inferiori agli ottomila euro si erano già levate nel recente passato più di una critica e numerose sono le pronunce di merito che si sono alternate dando ragione ora ai contribuenti ora all'operato dei Concessionari della riscossione.

Oggi, dopo l'intervento sia della Cassazione sia del legislatore (v. legge n. 73/2010), il quadro sembra definito una volta per tutte ed è quindi il momento giusto per ripercorrere brevemente questa intricata vicenda e per comprendere come si è giunti a questa decisione “finale” e, soprattutto, quali conseguenze la stessa può assumere.

La trattazione sull’argomento sarà di taglio tendenzialmente pratico, senza comunque perdere di vista le questioni squisitamente teorico-formali. Questo perché le azioni risarcitorie esperibili dai contribuenti, seppur apparentemente semplici, nascondono in realtà notevoli insidie.

Passando al merito della questione, il tema del risarcimento del danno da ipoteca esattoriale illegittima può essere, per comodità, articolato in quattro punti che pongono problemi del tutto diversi.

1. Giurisdizione

L’agente della riscossione eccepisce solitamente il difetto di giurisdizione del giudice ordinario (Giudice di Pace o Tribunale) in merito all’accertamento della contestata illegittimità dell’iscrizione ipotecaria per debiti di natura tributaria, sostenendo che la materia del contendere non rientri tra quelle di competenza del giudice ordinario quanto piuttosto tra quelle di competenza delle Commissioni Tributarie ex art. 2, comma 1, del D.lgs. n. 546/1992. Tale eccezione è, però, priva di ogni fondamento giuridico, per i motivi che seguono.

Si osserva, in primo luogo, che il contenzioso in esame non concerne la materia tributaria (cancellazione dell’ipoteca, impugnazione delle cartelle di pagamento, ecc.), ma unicamente l’azione di risarcimento dei danni per illegittime iscrizioni ipotecarie sui beni immobili intestati ai contribuenti, in quanto eseguite dall’Agente della riscossione per un importo complessivo inferiore a quello minimo di euro ottomila. E infatti, è indiscutibile che qualora la domanda di risarcimento dei danni sia basata su comportamenti illeciti tenuti dall’Amministrazione Finanziaria dello Stato o di altri Enti impositori, la controversia, avendo a oggetto una posizione sostanziale di diritto soggettivo del tutto indipendente dal rapporto tributario (crediti tributari), è devoluta alla cognizione dell’autorità giudiziaria ordinaria, non potendo sussumersi in una delle fattispecie tipizzate che, ai sensi dell’art. 2 comma 1° del D.lgs. n. 546/1992, rientrano nella giurisdizione esclusiva delle Commissioni Tributarie.

Il citato D.lgs. n. 546/1992 devolve alla giurisdizione tributaria tutte le controversie nelle quali si contesta la legittimità o meno dell’imposta, sicché va riconosciuta piena autonomia alla proposta azione di risarcimento del danno.

D’altro canto, da attenta analisi della giurisprudenza assolutamente dominante, interpellata più volte proprio per individuare a chi tra giudice tributario e quello ordinario spettasse la giurisdizione sulla domanda di risarcimento del danno derivante da comportamenti dolosi o colposi dell’Amministrazione Finanziaria, ai sensi dell’art. 2043 c.c., non sembra possano sorgere dubbi sul fatto che l’attività della P.A., anche nel campo tributario, deve svolgersi nei limiti posti non solo dalla legge, ma anche della norma primaria del neminem laedere, per cui è consentito solo al giudice ordinario (recte: spetta al giudice ordinario) accertare se vi sia stato un comportamento colposo tale che, in violazione della suindicata norma primaria, abbia determinato la violazione di un diritto soggettivo (sul punto: Cassazione civile, SS.UU., sentenza 16.04.2007 n° 8952; Cassazione civile, SS.UU., sentenza 04.01.2007 n° 15; Cassazione civile, SS.UU., sentenza 15.10.1999 n° 722; Cassazione civile, SS.UU., sentenza 18.05.1995 n° 5477; di recente: Cassazione civile, SS.UU., sentenza 10.06.2013 n° 14506).

In seconda analisi, autorevole dottrina (FERRI, in Lezioni sul processo civile, il Mulino 2000) aveva già sottolineato che il problema del riparto delle giurisdizioni non ha nulla a che vedere con quello dei poteri del giudice, ordinario o tributario. Sotto questo profilo, va rilevato come da parte del giudice ordinario in sede di giurisdizione civile sia sempre possibile svolgere anche un’attività di controllo della legittimità degli atti amministrativi, seppur al solo fine della loro eventuale “disapplicazione”.

Il giudice, se per risolvere una controversia deve decidere questioni riguardanti la legittimità di un atto amministrativo, deve stabilire anzitutto se l’atto stesso sia o meno produttivo di validi effetti, ma questa indagine si svolge in via incidentale e quindi al solo fine di decidere la controversia.

Nessun rilievo, dunque, può assumere la circostanza che nella specie possa anche mancare una pronuncia irrevocabile di illegittimità della iscrizione ipotecaria (ad es., perché il contribuente non ha impugnato l’iscrizione ipotecaria innanzi alla Commissione Tributaria per richiederne la cancellazione). Il contenzioso in esame, infatti, non concernendo la materia tributaria ma l’azione di risarcimento per i danni subiti dai contribuenti a seguito delle illegittime iscrizioni ipotecarie, rientra nel novero dei giudizi ordinari.

Pertanto, il giudicante, senza entrare nel merito della debenza tributaria sul cui fondamento l’agente della riscossione ha ritenuto dover iscrivere l’ipoteca sull’immobile del contribuente, ha l’unico compito di accertare se detta iscrizione è conforme alla legge e valutare, conseguentemente, la rilevanza del comportamento adottato dal Concessionario, ai fini della declaratoria o meno della sussistenza dei presupposti per il risarcimento del danno.

Di conseguenza, assolutamente infondata deve ritenersi l’eccezione di carenza di giurisdizione del giudice ordinario eventualmente sollevata dall’agente della riscossione, atteso che l'attività della pubblica amministrazione, anche nel campo della pura discrezionalità, deve svolgersi nei limiti posti dalla legge e dal principio primario del neminem laedere, codificato nell'art. 2043 c.c., per cui è consentito al giudice ordinario accertare se vi sia stato da parte della stessa pubblica amministrazione, un comportamento doloso o colposo che, in violazione di tale norma e tale principio, abbia determinato la violazione di un diritto soggettivo. Infatti, stanti i principi di legalità, imparzialità e buona amministrazione, di cui all'art. 97 Cost., la pubblica amministrazione è tenuta a subire le conseguenza stabilite dall'art. 2043 c.c., atteso che tali principi si pongono come limiti esterni alla sua attività discrezionale, ancorché il sindacato di questa rimanga precluso al giudice ordinario (in tal senso: Cassazione civile, sez. III, sentenza n° 5120; Cassazione civile, sez. III, sentenza 27.03.2009 n° 7531; Cassazione civile, SS.UU., sentenza 13.12.2007 n° 26108).

2. Illegittimità dell’iscrizione ipotecaria

L'oggetto del contendere è l’art. 76 del D.P.R. n. 602/1973. In esso si prevede infatti che: «il concessionario può procedere all'espropriazione immobiliare se l'importo complessivo del credito per cui si procede supera complessivamente ottomila euro».

Secondo i legali delle società concessionarie della riscossione tale norma prevede solo un limite quantitativo per l'avvio dell'espropriazione immobiliare ma non anche per l'iscrizione dell'ipoteca, che costituisce invece la preliminare misura cautelare a garanzia dei crediti iscritti nei ruoli e non pagati dal contribuente.

A sostegno di tale tesi difensiva infatti gli agenti della riscossione citano il tenore lettera dell'art. 77 dello stesso D.P.R. n. 602/1973 ai sensi del quale «...il ruolo costituisce titolo per iscrivere ipoteca sugli immobili del debitore e dei coobbligati per un importo pari al doppio dell'importo complessivo del credito per cui si procede». Non c'è quindi nessun importo limite al disotto del quale non sia possibile iscrivere ipoteca a garanzie del credito esattoriale e quindi, sempre secondo la tesi difensiva sostenuta dai concessionari, nessun limite all'esercizio delle misure cautelari.

Sulla base di queste considerazioni i concessionari della riscossione hanno proceduto all'iscrizione di numerosissime ipoteche anche per debiti iscritti a ruolo di entità inferiore al limite degli ottomila euro. Si è assistito quindi a molteplici e ingiustificate violazioni di legge compiute dagli esattori, che spesso non hanno rispettato alcun principio di trasparenza, correttezza e proporzionalità nella procedura di riscossione dei tributi, come talvolta sottolineato anche dai mezzi di informazione.

Infatti, la procedura esecutiva utilizzata in questi anni non è stata assolutamente conforme al dettato normativo di cui all’art. 76 del D.P.R. n. 602/1973, atteso che la maggior parte delle iscrizioni ipotecarie erano certamente irragionevoli e sproporzionate, essendo palesemente incongrua la differenza tra la modesta somma complessiva (talvolta anche sotto i mille euro) eventualmente dovuta dal contribuente, e il valore dell’immobile ipotecato.

Tali iscrizioni, essendo state imposte per un credito non superiore agli otto mila euro in realtà- come si vedrà meglio infra- erano palesemente illegittime.

In realtà, prima della pronuncia delle Sezioni Unite, alcuni giudici di merito si erano già espressi in ordine alla debolezza della posizione sostenuta dai concessionari della riscossione, osservando che se il legislatore, in materia di esecuzione esattoriale consente il ricorso all’espropriazione forzata immobiliare soltanto quando il credito per cui si procede supera gli 8mila euro, tale limitazione non può che riguardare anche l’ipoteca che precede il pignoramento (v. Tribunale Napoli, sentenza 29.03.2007 n° 19703; Commissione Tributaria Provinciale Milano, sentenza 20.04.2009 n° 601). Trattasi, difatti, di rimedio che s'inserisce nel procedimento di espropriazione immobiliare, quale mezzo di realizzazione del credito, e che, quale “atto funzionale all’espropriazione forzata e quindi, mezzo di realizzazione del credito” (cfr. Cassazione civile, SS.UU., sentenza 31.01.2006 n° 2053), non può che essere regolato dagli stessi principi.

Tale interpretazione trae spunto da una lettura sistematica e letterale degli artt. 76 e 77 del D.P.R n. 602/1973, dei quali il primo consente al concessionario della riscossione di procedere all’espropriazione immobiliare solo se il credito complessivamente azionato superi gli ottomila euro; il secondo impone allo stesso concessionario di iscrivere ipoteca prima di procedere all’esecuzione forzata. L’apposizione di un limite quantitativo del credito da superare, per poter ricorrere a tale tipo di esecuzione risponde, all’evidenza, ai principi di logicità e ragionevolezza tesi a evitare una sproporzione tra entità del diritto tutelato e danno patrimoniale arrecato al debitore.

D’altro canto, nel nostro ordinamento è pacificamente riconosciuto il principio del divieto generale di “abuso del diritto” (in argomento: Cassazione civile, sez. III, sentenza 18.09.2009 n° 20106; Cassazione civile, SS.UU., sentenza 26.06.2009 n° 15029). E ciò atteso che il concessionario della riscossione, per i crediti di entità minore, può attivare gli altri strumenti esecutivi disciplinati dalla normativa sulla riscossione delle imposte, e in particolare l’esecuzione mobiliare e, se del caso, il pignoramento presso terzi.

Vale la pena di richiamare, in merito, la direttiva n. 12/2007 della stessa Equitalia, società a partecipazione pubblica responsabile del sistema di riscossione, emessa in tempi non sospetti e che oggi assume toni a dir poco ironici, con cui detta società ha diramato istruzioni operative nell’utilizzo delle misure cautelari, raccomandando di “non abusare di strumenti altamente invasivi se non nei casi in cui l’entità dei debiti tributari ne giustifichi l’utilizzo (ipoteca diretta sugli immobili solo per le cartelle superiori a 10 mila euro)” e di fare ricorso “solo in ultima istanza, ovvero in presenza di comportamenti evasivi ripetuti…alle ganasce fiscali e alle misure cautelari sugli immobili”.

Malgrado ciò, in questa tormentata vicenda la posizione dei concessionari della riscossione in ordine alle iscrizioni di ipoteche per debiti inferiori al citato valore soglia è stata sempre univoca e ferma sulla correttezza del proprio agire. In particolare Equitalia, ribadendo la correttezza del suo operato, ritiene che il limite di otto mila euro è, infatti, previsto dall'art. 76, comma 1, del D.P.R. n. 602/1973 solo perché l'agente della riscossione possa procedere all'espropriazione, dando luogo alla vendita, e non anche per l'iscrizione di ipoteca che rappresenta invece, uno strumento di garanzia per gli interessi degli enti creditori.

L'affermazione, solo apparentemente esatta, non può assolutamente essere condivisa, derivata com'è da una lettura errata e non consapevole dell’istituto dell’ipoteca.

Come è noto, l’ipoteca è una forma di garanzia reale che «attribuisce al creditore il diritto di espropriare (…) i beni vincolati a garanzia del suo credito» (art. 2808 c.c.).

Principale scopo ed effetto dell’iscrizione ipotecaria è dunque la possibilità di procedere all’espropriazione del bene gravato al fine di soddisfare il credito garantito. Vi è cioè una stretta connessione tra l’iscrizione ipotecaria e la (successiva) fase satisfattiva in via coattiva del credito garantito.

La predetta stretta correlazione emerge anche dal disposto dell’art. 77, comma 2, D.P.R. n. 602 del 1973, laddove è sancito che, in presenza di un certo rapporto tra credito erariale e valore dell’immobile, il concessionario iscrive ipoteca e che, decorsi sei mesi dall’iscrizione senza che il debito sia stato estinto, il concessionario procede all’espropriazione del bene ipotecato.

È evidente che anche la normativa sulla riscossione coattiva dei crediti erariali presuppone che l’iscrizione ipotecaria non è fine a se stessa ma è finalizzata all’espropriazione forzata del bene gravato.

Va allora ritenuto che uno dei presupposti della legittimità dell’iscrizione ipotecaria sia che il credito per cui si procede superi complessivamente la somma di euro ottomila. Tale importo infatti è il limite imposto dall’art. 76 D.P.R. cit. per poter procedere a espropriazione immobiliare; al di sotto di tale limite il concessionario può attivare solo le altre forme di esecuzione forzata (mobiliare ovvero quella presso terzi), ma non l’espropriazione immobiliare.

La ratio è facilmente intuibile. Trattandosi della forma più onerosa e foriera di maggiori sacrifici per il cittadino essa è stata riservata ai crediti erariali di più rilevante importo, al fine di evitare che per crediti a volte anche irrisori si possa “abusare” dello strumento ipotecario con iscrizioni su immobili di valore spesso consistente.

Se quindi al concessionario è vietata l’esecuzione immobiliare per crediti inferiori a ottomila euro è giocoforza dedurne che anche l’iscrizione ipotecaria, che detta esecuzione forzata precede e garantisce, e nella quale inevitabilmente deve sfociare, deve sottostare al suddetto limite di valore del credito azionato.

Se infatti il concessionario, in presenza di crediti di importo inferiore, non può comunque procedere a esecuzione forzata dei beni immobili, non si può ritenere legittimato all’iscrizione di ipoteca sugli stessi immobili che poi non potrebbe mai espropriare, dovendo ricorrere ad altre forme di esecuzione coattiva.

Né vale, in ipotesi, a legittimarlo il disposto del capoverso dell’art. 77 D.P.R. cit. che dispone l’obbligatorietà dell’iscrizione di ipoteca nei casi in cui l’importo del credito non superi il cinque per cento del valore dell’immobile da sottoporre a espropriazione.

Infatti la disposizione in esame va coordinata con quella dell’articolo precedente, sicché l’obbligo per il concessionario scatta sempre purché l’importo del credito superi la somma di otto mila euro, sotto la quale è vietato («l concessionario non procede all’espropriazione immobiliare…», art. 76, comma 2, D.P.R. n. 602 cit.).

Le norme del D.P.R. n. 602/1973, frutto di disordinati e torrentizi rimaneggiamenti dell'originario testo, non sono evidentemente coordinate e vanno perciò interpretate in modo che abbiano un significato logico-giuridico accettabile e conforme ai principi dell'ordinamento.

Non è possibile immaginare un'ipoteca priva del diritto di espropriare (e ridotta a semplice prenotazione reale per una eventuale espropriazione da altri iniziata e che potrebbe non intervenire mai !?), occorre più realisticamente affermare che l'ipoteca può essere iscritta solo laddove il credito complessivamente iscritto a ruolo superi gli ottomila euro.

Ebbene, ipotizzando un'ipoteca priva del diritto di espropriare, non si vede proprio come il concessionario potrebbe procedere. Al contrario dopo aver iscritto l'ipoteca potrebbe solo stare fermo e sperare che esista un altro creditore che inizi una procedura immobiliare sullo stesso immobile ipotecato per partecipare alla futura distribuzione, altrimenti l'ipoteca avrebbe solo lo scopo di infastidire il debitore, scopo questo che ripugna attribuire al legislatore per evidenti ragioni di civiltà giuridica.

Ricostruzione della norma, quella prospettata dagli agenti della riscossione, assurda e inaccettabile e quindi da respingere, tanto è vero che le Sezioni Unite della Cassazione civile hanno una volta per tutte posto fine a qualsivoglia contrasto giurisprudenziale, confermando che le ipoteche sono nulle se il debito non supera gli 8mila euro (così, Cassazione civile, SS.UU., sentenza 22.02.2010 n° 4077).

Va da sé, quindi, che nell’ottica della ragionevolezza tale forma di garanzia non avrebbe avuto i presupposti per esistere. Di conseguenza, data la natura interpretativa della citata sentenza, sussistono validi motivi a sostegno della illegittimità ab initio delle iscrizioni ipotecarie eseguite in questi anni dagli agenti della riscossione, alla stregua ciò del principio, statuito nella richiamata pronuncia delle Sezioni Unite, che «rappresentando l’iscrizione un atto preordinato e strumentale all’espropriazione immobiliare, anche l’ipoteca soggiace al limite per essa stabilito, nel senso che non può essere iscritta se il debito del contribuente non supera gli otto mila euro».

Gli effetti di tale decisione, come di qualsiasi interpretazione, si dispiegano senza dubbio con efficacia ex tunc. Vale a dire, il principio enunciato non potrà non trovare applicazione anche per i procedimenti in corso, che dovranno essere adeguati alla normativa correttamente interpretata.

Peraltro, occorre subito evidenziare che detta pronuncia della Suprema Corte a Sezioni Unite è stata tempestivamente recepita dal legislatore nazionale, con decreto-legge n. 40 del 25 marzo 2010 convertito con legge n. 73 del 22 maggio 2010 (art. 3, comma 2-ter).

Logico corollario dell’intervento normativo è che i presupposti per il mantenimento della misura cautelare in oggetto sono oramai assolutamente insussistenti, atteso che la disposizione in commento ha introdotto nel nostro sistema una norma di principio consolidatasi sulla scorta dell’ampia giurisprudenza di merito e di legittimità al fine di rendere chiara anche agli agenti della riscossione, al di là di ogni possibile valutazione interpretativa, l’illegittimità dell’iscrizione ipotecaria per crediti inferiori al limite soglia (in tema: Commissione Tributaria Provinciale Roma, sez. V, sentenza 09.02.2011 n° 51).

Nonostante tale intervento normativo, gli agenti della riscossione hanno continuato tenacemente a sostenere la legittimità dell’eseguite iscrizioni ipotecarie. Al riguardo, hanno dedotto che la citata sentenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte sarebbe stata superata proprio dall’art. 3, comma 2° ter del decreto- legge n. 40/2010, introdotto dalla legge di conversione n. 73 del 2010, che dispone espressamente «a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, l’agente della riscossione non può iscrivere l’ipoteca di cui all’art. 77 del D.P.R. n. 602/1973 e successive modifiche, se l’importo complessivo del carico per cui si procede, è inferiore a euro otto mila».

Ciò avallerebbe, secondo la tesi difensiva dell’agente della riscossione, la piena legittimità delle ipoteche iscritte per carichi inferiori a euro otto mila, prima della sua entrata in vigore (25.05.2010).

Orbene, va ricordato che l’intervento di una norma successiva- nel caso di specie decreto-legge n. 40/2010 sopra citato- che fa proprio il principio esposto dalla Suprema Corte «A decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di conversione» non ha evidentemente alcuna efficacia retroattiva, soprattutto per quanto concerne gli ipotetici effetti abrogativi della norma previgente per i procedimenti già oggetto di iscrizione ipotecaria. La ratio di tale norma sopravvenuta risiede infatti nel dichiarare espressamente, onde evitare per il futuro dispute e interpretazioni distorte, quale fosse il comportamento da non seguire, in tema di iscrizioni ipotecarie («L’agente della riscossione non può iscrivere l’ipoteca... se l’importo complessivo del carico … è inferiore a euro otto mila»).

Peraltro, non è difficile giungere a questa soluzione considerando che la norma sopravvenuta non si pone in contrasto alcuno con la norma previgente e anzi, come detto, ne ha fatto sostanzialmente proprie le conclusioni cui era pervenuta la Suprema Corte a Sezioni Unite.

In quest’ottica, finalizzata a rendere ancor più chiara all’agente della riscossione l’illegittimità dell’iscrizione ipotecaria per crediti inferiori a otto mila euro, depone la legge n. 106/2011 che, ulteriormente confermando il suddetto limite, ha introdotto nuove e più elevate soglie (20 mila euro per l’abitazione principale del debitore) per poter iscrivere ipoteca esattoriale.

Risultano pertanto non solo privi di fondamento, ma anche privi di giustificazione quegli sforzi ermeneutici attraverso i quali l’agente della riscossione arriva a ipotizzare persino una efficacia abrogativa tacita retroattiva.

Più in generale, vista l’eccezionalità della retroattività delle norme in materia tributaria, se il legislatore avesse voluto retroagire, facendo cessare gli effetti della norma previgente, avrebbe potuto e dovuto farlo espressamente con disposizioni transitorie e con altre tecniche legislative.

In ogni caso, a fugare ogni dubbio è intervenuta la Suprema Corte a Sezioni Unite che, tornata a occuparsi della questione, si è opposta con forza alla tesi del concessionario ribadendo che una simile disposizione (D.L. n. 40/2010 poi convertito in legge 73/2010) non autorizza a ritenere che per il periodo pregresso non esistesse alcun limite. Infatti, ciò che conta «Non è l’intenzione del legislatore (Cass. n. 2454 del 1983) o la lettura fattane da ministeri o altri enti, ma la volontà oggettiva della legge (Cass. n. 3550 del 1988) quale risultante dal suo dato letterale», e questo nel caso di specie depone «Nel senso della non iscrivibilità dell’ipoteca per crediti non realizzabili a mezzo di espropriazione immobiliare» (cfr. Cassazione civile, SS.UU., sentenza 03.04.2012 n° 5771).

La Suprema Corte, inoltre, senza alcuna incertezza ha affermato che, per accettarsi la linea dell’agente erariale, il «DL n. 40/2010 avrebbe dovuto stabilire il contrario e, cioè, che a partire dal momento della emanazione della legge di conversione non sarebbe più stato possibile iscrivere ipoteca per crediti non realizzabili a mezzo di espropriazione immobiliare; che il DL succitato non ha, però, detto nulla di simile, in quanto non ha fatto cenno al predetto collegamento, ma si è limitato a fissare in modo autonomo il presupposto per le future iscrizioni dell'ipoteca, indicandolo in un importo che seppure coincidente con quello minimo all'epoca previsto per l'espropriazione, non può essere per ciò solo apprezzato come indiretta dimostrazione della inesistenza di limiti per il passato».

Alla luce delle suesposte considerazioni e sulla base dell’autorevole interpretazione della Suprema Corte, è evidente che le ipoteche immobiliari per crediti inferiori a otto mila euro sono illegittime, anche per i procedimenti avviati prima dell’entrata in vigore della legge n. 73 del 22 maggio 2010.

3. Quantificazione del danno e onere della prova

Da quanto sin qui detto, è innegabile che le iscrizioni ipotecarie eseguite sugli immobili dei contribuenti rappresentano una palese violazione dei principi di imparzialità, correttezza e buona amministrazione e pertanto deve essere dichiarato tanto il pregiudizio economico quanto il danno non patrimoniale subito dagli stessi.

Stante, però, l’oggettiva difficoltà e, pressoché, impossibilità di dimostrare il danno nel suo preciso ammontare, gli agenti della riscossione contestano la fondatezza delle domande proposte dai contribuenti in quanto, a loro dire, carenti di prova in ordine all’asserito danno subito.

Per ottenere il risarcimento del danno occorrerà, dunque, fornire la prova dello stesso. Quest'ultima sarà costituita senza dubbio dal concreto pregiudizio economico (es. il contribuente che vede sfumare la vendita dell’immobile ipotecato), al quale potrà però anche aggiungersi una ulteriore richiesta di danni di natura non patrimoniale riconducibili alla lesione subita dal contribuente da tali atti illegittimi.

Il termine entro il quale le richieste potranno essere esperibili è naturalmente l’ordinario termine della prescrizione ovvero cinque anni. Secondo l’opinione prevalente, ciò significa che si potrebbero attivare tutti coloro che hanno subito iscrizioni ipotecarie per debiti iscritti a ruolo inferiore a otto mila euro, a decorrere dall’avvenuta iscrizione ipotecaria.

Ad avviso di chi scrive tale interpretazione non è condivisibile, in quanto nell’ipotesi in esame si configura un illecito a carattere permanente, il quale perdura fino a quando non venga cancellata l’ipoteca. Infatti, l’illiceità del comportamento lesivo non si esaurisce nel primo atto, ma perdura nel tempo, sino a quando permanga la situazione illegittima posta in essere e nella quale si concreta una interrotta violazione dell’altrui interesse.

Il diritto al risarcimento del danno, pertanto, sorge con l’inizio del fatto illecito generatore del danno stesso e con questo persiste nel tempo, rinnovandosi di momento in momento, con la conseguenza che la prescrizione, secondo la regola del suo computo (art. 2935 c.c.), ha inizio da ciascun giorno rispetto al fatto già verificatosi e al corrispondente diritto al risarcimento.

Dall’applicazione di detti principi consegue che il termine quinquennale di prescrizione comincia a decorrere dall’avvenuta cancellazione dell’ipoteca, e non dal sua iscrizione.

Ciò posto, tracciando un quadro generale sulla metodologia di approccio alla tematica della risarcibilità del danno esistenziale, va osservato che il pregiudizio subito dai contribuenti è idoneo a superare quella soglia di sufficiente gravità e compromissione dei diritti lesi, individuata, in sede interpretativa, dalle Sezioni Unite del 2008 (sentenze nn. 21934 - 26972 - 26975), quale limite imprescindibile al risarcimento del danno non patrimoniale.

Detta soglia di sufficiente gravità e compromissione dei diritti lesi ha lo scopo di contemperare le esigenze risarcitorie con il dovere di tolleranza cui è tenuto ciascun individuo nei riguardi degli altri consociati e che rinviene un ancoramento costituzionale nell’art. 2 Cost..

Più precisamente, il danno non patrimoniale risarcibile deve essere inteso come categoria ampia, nella quale trovano collocazione giuridica tutte le ipotesi in cui si verifichi la lesione di beni o valori inerenti alla persona, ovvero sia il danno morale soggettivo, sia il danno biologico in senso stretto, sia il danno esistenziale, o danno da lesione di altri beni non patrimoniali di rango costituzionale.

Nel contenzioso in esame, appare evidente come i contribuenti abbiano subito danni notevoli, che vanno dal mancato uso, anche per diversi anni, degli immobili ipotecati, agli effetti negativi, in conseguenza delle disposte ipoteche esattoriali, dell’iscrizione ex lege dei propri nominativi tra le segnalazioni a “sofferenza” presso la Centrale dei Rischi della Banca D’Italia, e del trattamento dei dati dei suddetti contribuenti nel circuito finanziario ai fini dell’accesso al credito. In particolare, la “segnalazione” del nominativo presso la centrale dei rischi, cui si rivolgono gli istituti di credito per verificare la solvibilità del cliente, può comportare anche un concreto e immediato pericolo di revoca degli affidamenti (si pensi, ad es., alla categoria degli imprenditori).

Per non parlare, poi, del fatto che i contribuenti rimangono spesso privi senza alcuna valida ragione della possibilità di poter disporre del proprio patrimonio immobiliare, anche al fine di poterlo validamente offrire in garanzia in operazioni finanziarie, con il disagio che evidentemente ne deriva.

È notorio, infatti, che subire una illegittima iscrizione ipotecaria sui propri beni, implica un’alterazione in senso negativo dell’organizzazione di vita quotidiana, comportando anche un’alterazione alla serenità personale e familiare del contribuente.

Pertanto, la lesione dei diritti dei contribuenti al buon nome, alla riservatezza e immagine, nonché alla disponibilità della proprietà privata, riconosciuti espressamente dagli artt. 2, 4, 15, e 42 della Carta Costituzionale, viene a sostanziarsi in conseguenza del riferito comportamento adottato dagli agenti della riscossione, in ordine al quale la stessa gravità delle ritenute illegittime iscrizioni ipotecarie, con la conseguente lesione dei suddetti diritti inviolabili della persona, fornisce la prova in re ipsa del danno non patrimoniale dagli stessi subito, secondo quanto statuito da ormai costante e copiosa giurisprudenza, in fattispecie analoghe (in tal senso: Cassazione civile, sez. I, sentenza 28.06.2006 n° 14977; Giudice di Pace Siracusa, sentenza, sentenza 29.09.2010 n° 1422; Corte di Appello Napoli, sentenza 28.10.2005; Tribunale Modena, sentenza 02.03.2004; di recente: Giudice di Pace Siracusa, sentenza 05.05.2013 n° 795; Giudice di Pace Catania, sez. I civile, sentenza 27.01.2012 n° 272; Tribunale di Nuoro, sentenza 08.02.2011, secondo cui «l’iscrizione illegittima d’ipoteca viola il disposto del neminem laedere, ex art. 2043 c.c., e, conseguentemente, ex art. 2059 c.c., è generativa di pregiudizio ai valori costituzionali, personali, quali l’onore e la reputazione del soggetto iscritto, come tale risarcibile in re ipsa e liquidabile in via equitativa»).

Del resto, sul piano della prova è ius receptum l’affermazione secondo cui l’immaterialità dei pregiudizi in questione- lesione dei beni e valori inerenti alla persona- rende percorribile in via principale lo strumento della prova per presunzioni, sulla scorta di valutazioni anche basate su fatti notori o massime di comune esperienza (in tal senso, Cassazione civile, sez. III, 19.08.2003 n° 12124). Sotto tale profilo, secondo la Cassazione è risarcibile il danno (conseguenza) patito dal proprietario di un immobile a causa di un’illegittima e imprudente iscrizione di ipoteca giudiziale poiché, affermano i Giudici di legittimità, è possibile la compromissione della “commerciabilità” del bene stesso (così: Cassazione civile, sez. III, sentenza 02.11.2010 n° 22267; in senso conforme si sono espressi, Commissione Tributaria Regionale Bari, sentenza 18.12.2009; Tribunale Roma, sez. Ostia, sentenza 09.12.2010).

In buona sostanza, il rapporto di derivazione immediata e diretta del lamentato danno accertato in via presuntiva dei disagi subiti non richiedono particolari sforzi argomentativi, riguardando diritti di rango costituzionale. I contribuenti, tra l’altro, sopportano per un lungo tempo un illegittimo trattamento errato dei loro dati nel circuito finanziario e sistema creditizio da cui sono di fatto esclusi.

In ordine al quantum, considerata l’impossibilità pratica della determinazione di un concreto e preciso ammontare del danno patrimoniale subito, il giudicante può procedere alla liquidazione in via equitativa dello stesso.

E invero, la sfera personale dei contribuenti illecitamente incisa trova tutela nella Costituzione, la quale postula il diritto soggettivo all’integrità sostanziale, suscettibile di risarcimento equitativo alla stregua dei canoni generali consacrati rispettivamente dagli artt. 2059 e 1226 c.c..

Per completezza espositiva, in ordine alle richieste di risarcimento del danno patrimoniale, occorre precisare che il principio secondo cui alla illegittima iscrizione e alla mancata cancellazione della ipoteca consegue il diritto del debitore al risarcimento del danno- il quale è in re ipsa e trova la sua causa diretta e immediata nella situazione illegittima posta in essere dal creditore- si riferisce esclusivamente “all’an debeatur” che presuppone solo l’accertamento di un fatto potenzialmente dannoso, in base a una valutazione di probabilità o di verosimiglianza, mentre la prova di un concreto pregiudizio economico è riservata alla fase successiva di determinazione e liquidazione che non preclude al giudice di negare la sussistenza del danno.

Pertanto, alla mancata prova di un concreto pregiudizio economico non può supplirsi mediante il ricorso alla valutazione equitativa prevista dall’art. 1226 c.c., essendo questa consentita solo allorché il danno non possa essere provato nel suo preciso ammontare; la liquidazione d’ufficio, normalmente equitativa, non è altro che l’applicazione di un criterio generale (artt. 1226 e 2056 c.c.) e pertanto non comporta alcuna deroga all’onere di allegazione degli elementi di fatto idonei a dimostrarne l’effettività.

4. Responsabilità ex art. 96 c.p.c.

L’Agente della Riscossione è investito di un grandissimo potere che deve esercitare con equilibrio e prudenza, sussistendo diversamente, in applicazione dell’art. 96 c.p.c., la diretta responsabilità aggravata per gli atti che lo stesso pone in essere.

In particolare, per effetto modifica al codice di procedura civile apportata dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, che ha introdotto il terzo comma dell’art. 96, gli agenti della riscossione sono stati financo condannati al pagamento di un indennizzo allorquando essi abbia erroneamente iscritto ipoteca sugli immobili del contribuente (Tribunale Roma, sez. Ostia, sentenza 09.12.2010).

In tal caso, non è necessario allegare e dimostrare l’esistenza di un danno, essendo semplicemente previsto che il giudice condanna la parte soccombente al pagamento di un somma di denaro. In sostanza, l’indennizzo (è più corretto qualificarlo così anziché risarcimento danni), prescindendo da analisi in ordine all’elemento soggettivo (dolo o colpa grave), richiesto per le fattispecie di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 96 c.p.c., si presenta alla stregua di una sanzione d’ufficio a carico della parte soccombente, irrogata non (necessariamente) su richiesta di parte, e la cui applicabilità non è subordinata alla concomitante sussistenza delle fattispecie dei primi due commi.

Difatti, la lettera della norma è resa ancor più chiara dall’uso della locuzione “in ogni caso”, che lascia intendere che la condanna può essere emessa in tutti i casi in cui, anche al di fuori dei primi due commi, appaia ragionevole.

Il caso tipico è quello dell’ipoteca illegittimamente iscritta dall’Agente della riscossione in base a titolo sospeso (perché impugnato in altra sede) ovvero quando l’importo del credito non ammette l’iscrizione (come sappiamo, infatti, al di sotto degli ottomila euro non è più possibile iscrivere ipoteca).

La quantificazione dell’indennizzo viene rimessa alla valutazione discrezionale del giudice, tenuto conto delle circostanza del caso concreto.

La condanna, dunque, va correlata, nel quantum, al grado di colpa che il Giudice ravvisa nella condotta dell’Agente, che può dipendere dalla conoscenza (o conoscibilità) che esso aveva della sospensione del titolo (ad esempio, per aver preso parte al giudizio che l’ha dichiarata), dalla condotta processuale della stessa (una cosa sarà ammettere in giudizio l’errore, altra difendersi strenuamente e con argomenti giuridici poco pertinenti o palesemente infondati), e da altri elementi ancora che la fattispecie concreta faccia emergere.

Per fare un esempio concreto, si pensi al concessionario della riscossione che, anziché procedere in contraddittorio con il contribuente a una rivalutazione degli elementi posti a fondamento della ipoteca esattoriale iscritta, evitando così, una inutile e defatigante prosecuzione del contenzioso, preferisce continuare pervicacemente a mantenere detta iscrizione ipotecaria sul patrimonio immobiliare del contribuente.

Gli agenti della riscossione, adottando tale comportamento, non solo palesano estrema superficialità nell’applicazione dei mezzi di riscossione - che sono assolutamente coercitivi, dannosi e pericolosi nei confronti dei cittadini – ma dimostrato anche di abusare della propria posizione, pur di recuperare un credito.

Pertanto, l’indifferenza degli agenti della riscossione alla richiesta di cancellazione dell’ipoteca costituisce, secondo alcuni giudici di merito, giusto motivo per la condanna al risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 96 c.p.c., posto che la richiamata sentenza interpretativa della Suprema Corte impone alla agli esattori, inerti in autotutela, almeno l’obbligo di ottemperare alla precisa richiesta di cancellazione (in tal senso: Giudice di Pace Siracusa, sentenza 06.08.2011 n° 951).

Concludendo, la battaglia fra i contribuenti e il concessionario della riscossione in tema di ipoteche illegittime ha assunto toni molto accesi, in quanto le iscrizioni ipotecarie sono state utilizzate più come mezzo di coazione di pagamento che come misura per garantire il buon esito dell’eventuale esecuzione, nella maggior parte dei casi tuttavia assolutamente impraticabile. Si spera, pertanto, che per il futuro venga assunto un atteggiamento diverso, più aperto al dialogo e al confronto, improntato a una attenta e leale collaborazione tra contribuente e fisco.